"IL CAMPIELLO" AL TEATRO FILARMONICO DI VERONA
Lo scorso
marzo è andato in scena al Teatro Filarmonico di Verona per la prima volta in
tempi moderni un titolo alquanto poco frequente, ma estremamente fresco e
divertente: "Il campiello" del veneziano Wolf-Ferrari, tratto dall'omonima
commedia di Goldoni. La fortuna del compositore venne principalmente
dall'incontro con il celebre commediografo veneziano, di cui scrisse la musica
anche per "Le donne curiose", "I quatro rusteghi" e "La vedova scaltra". Per
tutta la sua vita di compositore Wolf-Ferrari rimase estraneo sia alle
esperienze atonali e dodecafoniche della Seconda scuola di Vienna, sia al verismo
di Puccini. I modelli rimasero sempre Mozart e Rossini, in particolare nella
loro produzione buffa, e l'ultimo Verdi, quello di "Falstaff", che Wolf-Ferrari
ebbe modo di incontrare e conoscere a Venezia assieme ad Arrigo Boito verso la
fine del secolo. Nella sua musica, Wolf-Ferrari sottomette le arditezze
armoniche che andavano consolidandosi nell'epoca in cui si dedicava a "Il
campiello" -tra il 1935 e il 1936- alla freschezza melodica e alla contabilità,
inoltre sia il trattamento delle voci che quello dell'orchestra ci riporta al
classicismo. Troviamo sì alcuni momenti armonicamente lontani da Mozart e
Rossini -segno che Wolf-Ferrari era ben a conoscenza di cosa avveniva
oltralpe-, ma hanno in ogni caso valenza descrittiva, ad esempio, del grande
caos del terzo atto. La musica resta comunque di matrice mozartiana -e il
compositore sembra aver intravisto in Mozart un fuori tempo sempre da
inseguire- e debitrice del "Falstaff", in particolare in alcune scene in cui
domina il caos e il chiacchiericcio.
L'affresco della piazzetta veneziana abitata da persone di basso rango -il campiello appunto- e gli intrecci al suo interno vengono ben messi in scena per la prima volta a Verona grazie alla regia di Fedorico Bortolani, alla sua assistente Barbara Pessina e alle scene di Giulio Magnetto. Funzionale l'idea di uno spazio dietro al campiello che si apre durante i preludi ai vari atti per mostrare al pubblico delle scene tipicamente veneziane, sia del Settecento che dei giorni nostri. Forse un po' ardita l'apparizione del Mose all'inizio del terzo atto e quella della crociera da cui scendono gli artisti del coro travestiti da turisti che fanno foto e selfie sul palco, ma comunque l'operazione ha un significato profondo e aiuta a lanciare il messaggio che porta con sè "Il campiello": la città resta sempre la stessa e a muoversi sono le persone attorno, le persone che abitano il campiello, le persone che vanno e che vengono. Significativo allora il finale con il saluto di Gasparina alla città: "Bondì, Venezia cara…Bondì, caro campielo" e i due versi "no zé bel quel ch'è bel,/ma quel che piaze."
Adeguati e d'epoca i costumi di Manuel Pedretta, buone le luci di Claudio Schmid.
Pressoché perfetta l'orchestra sotto la guida di Francesco Omassini, che valorizza timbri e sonorità, sottolineando al meglio con i colori che riesce a trarre dagli strumentisti ciò che avviene sul palco. Ottimo come al solito il coro preparato da Roberto Gabbiani. A dir poco perfetto il cast vocale, capitanato dalla meravigliosa Gasparina di Bianca Tognocchi, perfetta sotto ogni punto di vista: la voce risulta ampia e proiettata, ricca di colori in tutta l'estensione, supportata da una presenza scenica ottima e buone capacità di attrice. Molto buona anche la prova di Sara Cortolezzis nei panni di Lucieta, che sfoggia una voce fresca e briosa, omogenea e timbrata e dimostra di avere il giusto spirito per un simile ruolo. Ottime la Gnese di Lara Lagni, dal bel timbro ricco e dalla voce omogenea nei vari registri, oltre che buone capacità attoriali, e la Orsola di Paola Gardina, con un ottimo timbro specialmente nel registro grave e una buona presenza scenica. Perfetti Leonardo Cortellazzi e Saverio Fiore nei panni rispettivamente di Dona Cate Panciana e Dona Pasqua Polegana, che sembrano a loro agio nel palco quasi come degli attori comici, che divertono il pubblico e strappano sorrisi a tutti, e che in più vantano gran talento musicale e un bel timbro vocale.
Molto buona anche tutta la parte dei personaggi maschili dell'opera, a partire da Biagio Pizzuti nel ruolo del cavaliere Astolfi. Il punto forte del baritono è sicuramente l'ampia e proiettata voce, dal timbro brunito e ambrato, capace di meravigliose sfumature. Tutto ciò si aggiunge ad un fraseggio sempre curato e una presenza scenica più che adeguata. A fianco a lui, ottime le prove di Matteo Roma, già ascoltato lo scorso febbraio ne "La rondine" e del quale non si può che confermare le ottime impressioni avute in quell'occasione sulla voce. Ottimo il fraseggio e la linea vocale sempre sostenuta e mai pesante. Buona anche la prova di Gabriele Sagona (Anzoleto), interprete intelligente e dal bel timbro vocale, e di Guido Loconsolo quale Fabrizio dei Ritorti, che vanta un'ampia ed estesa voce di basso, timbrata e omogenea.
Al termine della recita, lunghi applausi per tutti gli interpreti accompagnati ancora da un sorriso per il pomeriggio divertente passato a teatro, dove è andata in scena un'opera che meriterebbe anche per la sua leggerezza di essere messa un po' più sotto i riflettori e proposta nei cartelloni più spesso. Come al solito il Teatro Filarmonico di Verona ha portato sul palco una produzione di grande qualità.
Giovanni Zambon
La recensione si riferisce alla recita di domenica 17 marzo 2024
